Se non ora, quando?

Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto,
Tosate per mille anni, rassegnate all’offesa.
Siamo i sarti, i copisti ed i cantori
Appassiti all’ombra della Croce.
Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta,
Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto.
Se non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così, come? E se non ora, quando?

Scritto da me, Martin Fontash, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943

Questa è una strofa della canzone preferita di Gedale e della sua brigata di partigiani ebrei (i “gedalisti“) protagonisti del romanzo “Se non ora, quando?” di Primo Levi. E’ un po’ l’inno del gruppo, il cui testo originale, viene arricchito e modificato ad ogni esecuzione dal capobanda/violinista.

Il testo originale, racconta Gedale, è stato scritto da un partigiano ebreo, ex carpentiere, che durante un rallestramento dei tedeschi fu ferito e fatto prigioniero, ma, prima di essere giustiziato, gli fu concesso di scrivere un’ultima canzone, di cui Gedale conserva gelosamente il manoscritto.

Mendel l’orologiaio e Leonid il giovane paracadutista, entrambi soldati russi di origine ebrea ed entrambi dispersi, si incontrano per caso in una foresta Bielorussa e decidono di aiutarsi a vicenda per non farsi catturare dai tedeschi e per raggiungere un qualche gruppo di partigiani. La loro posizione è rischiosa e pericolosa, sia in quanto soldati russi sia in quanto ebrei in una zona dove tutti li perseguitano o li guardano con diffidenza e disprezzo.

Dopo varie vicessitudini si ritrovano nelle fila del gruppo guidato da Gedale che raccoglie uomini e donne dalle origini, dalle nazionalità e dalle storie più disparate ma accomunati dall’obiettivo di combattere i tedeschi nell’ombra, spostandosi in continuazione senza dare punti di riferimento, con azioni di sabotaggio, aspettando l’arrivo dell’Armata Rossa o degli Alleati.

La storia inizia nell’estate del 1943 e racconta il lungo peregrinare dei “gedalisti” che, partiti dalla Russia Bianca, viaggiano per migliaia di chilometri nel cuore dell’Europa, attraversando stati, combattendo piccole battaglie, incontrando altri gruppi di partigiani e si ritrovano nell’estate del 1945 a Milano, decisi a trovare un modo per raggiungere la Palestina.

Il libro di Primo Levi è molto bello, avvincente, ma allo stesso tempo crudo e angosciante, come non poteva non essere un libro che racconta le brutture di un periodo storico così buio e triste della storia europea.

Non ci sono solo battaglie in questo libro, si parla anche di fratellanza, di odio, di lotta per la sopravvivenza in ambienti ostili e condizioni climatiche estreme, di disperazione, di opportunismo, di precarietà, di coraggio e di speranza. Si parla del saggio ex-orologiao Mendel, del giovane e fragile paracadutista Leonid, dell’istrionico, poliglotta e mastodontico ex-attore giramondo Pavel, della determinata e affascinante Line, della fedele Bella, del capobanda/violinista Gedale e di tanti altri personaggi: ebrei-russi, ebrei-polacchi, ebrei-tedeschi  che, fino a qualche anno prima, avevano in comune soltanto l’origine semitica e che a un certo punto della storia sono accomunati dallo stesso destino e, nonostante le differenze di stato sociale, di lingua, di cultura e di attaccamento alla religione e alle proprie origini, si ritrovano a dover superare le reciproche incomprensioni, le differenze e le difficoltà di comunicazione per combattere insieme e sopravvivere.

Il libro racconta l’odio assurdo e ingiustificato che tante gente dovette subire non solo da parte dei tedeschi, ma anche da parte della popolazione di altre nazioni che vedevano in loro una minaccia e un pericolo da eliminare.

Una delle parti che più mi ha colpito, però non riguarda loro, ma riguarda la descrizione dell’Italia e degli italiani che un soldato alleato fa ai “gedalisti”  quando questi, da clandestini, arrivano a Milano nascosti in un vagone di un treno merci: 

L’Italia è un paese strano. Ci vuole molto tempo per capire gli italiani, e neanche noi, che abbiamo risalito tutta l’Italia, siamo ancora riusciti a capirli bene; ma una cosa è certa, in Italia gli stranieri non sono nemici.

Si direbbe che gli italiani sono pù nemici di se stessi che degli stranieri: è curioso ma è così. Forse questo viene dal fatto che agli italiani non piacciono le leggi, e siccome le leggi di Mussolini condannavano gli stranieri, proprio per questo gli italiani li hanno aiutati. Agli italiani non piacciono le leggi, anzi gli piace disobbedirle: è il loro gioco, come il gioco dei russi sono gli scacchi. Gli piace imbrogliare; essere imbrogliati gli dispiace, ma non tanto: quando qualcuno li inganna, pensano <<vedi che bravo, è stato più furbo di me>>, e non preparano la vendetta ma tutt’alpiù la rivincita…. Ci hanno aiutati non benché fossimo ebrei, ma perché lo eravamo. Hanno aiutato anche i loro ebrei; quando hanno occupato l’Italia, i tedeschi hanno fatto tutti gli sforzi che potevano per catturarli, ma ne hanno preso e uciso solo un quinto; tutti gli altri hanno trovato rifugio nelle case dei cristiani, e non solo gli ebrei italiani, ma molti ebrei stranieri che si erano rifugiati in Italia.”

E poi sulle abitudini degli italiani: “Anche come cristiani gli italiani sono strani. Vanno a messa e bestemmiano. chiedono le grazie alla Madonna e ai santi, ma a Dio pare che credano poco. Sanno i dieci comandamenti a memoria, ma ne rispettano al massimo due o tre. Io credo che aiutino chi ne ha bisogno perché sono brava gente, che ha sofferto molto e che sa che chi soffre deve essere aiutato.

Mi piace pensare che, nonostante quello che si dica, gli italiani siano ancora così: un po’ imbroglioni sì, ma alla fine brava gente che vuole solo vivere in pace.

Fonti e riferimenti:

 

 

5 anni ago

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