The English Game

Morgan, mi dispiace, sei fuori. Nessuno deve dire che abbiamo vinto perché eravamo uno in più“. Con questa frase Fergus Suter, capitano del Blackburn, invita un compagno di squadra a uscire dal campo prima dell’inizio dei tempi supplementari della finale di FA Cup giocata contro la squadra Old Etonians. Un gesto di fair-play inconcepibile in una qualsiasi partita di calcio ufficiale dei giorni nostri.

E infatti uesto episodio è ambientato a fine ottocento, in Inghilterra, quando il calcio era uno sport già molto conosciuto ma ancora amatoriale e quando giocare a calcio era un hobby e non un lavoro. Soprattutto parliamo della scena di una serie televisiva, “The English Game“, che da pochi giorni è disponibile su Netflix. La serie ricostruisce episodi storici e parla di personaggi realmente esistiti, ma si sa, le storie vere in questi casi sono sempre romanzate per renderle più suggestive e interessanti.

Questa scena però mi ha riportato alla memoria degli episodi avvenuti tanti anni fa quando, da ragazzini, ancora prima di entrare a far parte delle squadre giovanili del paese, trascorrevamo intere giornate a giocare a pallone per strada.

Molti dei ricordi di uesto periodo sono sempre vivi in me e credo siano comuni a molte persone della mia età. Parlo dei campetti improvvisati nelle strade del paese o nel parcheggio del condominio, dell’asfalto su cui ci sbucciavamo ogni giorno ginocchia, mani e gomiti, degli zaini o delle pietre usati per delimitare le porte, dei palloni persi nel vallone vicino casa, ecc. Ma c’è un altro aspetto di quel nostro calcio che mi è tornato alla memoria proprio vedendo questa serie, quello delle regole del gioco.

In qualsiasi campetto improvvisato del paese si giocasse, che fosse quello del nostro condominio o quello delle case popolari o qualsiasi altro, le regole, ma anche e soprattutto le eccezioni erano sempre le stesse, non erano scritte, ma erano codivise e accettate da tutti. Non ricordo che qualcuno ce le abbia mai spiegate, si imparavano un po’ per volta, un po’ seguendo l’esempio dei più grandi un po’ seguendo il buon senso. Per esempio, la norma era che le due squadre avessero lo stesso numero di giocatori e che i due capitani scegliessero alternativamente uno alla volta i membri della propria squadra. Però spesso si era in numero dispari, oppure le squadre erano un po’ squilibrate, così ci si accordava per degli scambi per riequilibrare le formazioni.

L’obiettivo, infatti, non era dominare la partita e stavincere, non c’era onore in questo, ma rendere la partita il più combattuta possibile. Vincere soffrendo era la soddifazione più grande e ciò che ci permetteva di essere orgogliosi e contenti.

Ricordo poi che, specialmente in estate, le partite erano interminabili, difficilmente se ne terminava una e se ne cominciava un’altra, non c’erano limiti di tempo o di punteggio, spesso c’era una partita che durava tutta la mattina e una che durava tutto il pomeriggio. Addirittura, alcune volte, la partita della mattina veniva continuata il pomeriggio perché era finita in pareggio o perché era stata particolarmente combattuta. Così capitava che una partita durasse un giorno intero. Il giorno successivo però, se ne cominciava un’altra, non si continuavano le partite del giorno prima. 

Dato che le partite duravano così a lungo era normale che le formazioni cambiassero durante il suo corso. Questo accadeva non perché ci fossero cambi (non esistevano sostituzioni, né numero legale, si giocava sempre tutti dall’inizio alla fine), ma perché magari, a un certo punto, qualcuno doveva andare via (quasi sempre portato via in modo coatto da uno dei genitori) o perché qualche ritardatario ci raggiungeva. Di solito il nuovo arrivato entrava nella squadra che stava perdendo. Ma poteva essere che il nuovo arrivo portasse dei rimescolamenti più complessi che tenevano conto di vari fattori come l’età, la bravura e perfino il sesso.

Eh sì a calcio giocavano proprio tutti, il range delle età era molto variabile e quindi se in una squadra c’era un ragazzo più grande allora l’altra doveva avere un giocatore in più, oppure nella squadra di quello grande ci andava anche il più piccolo o una ragazza. Oddio era rarissimo che ce ne fosse una, ma poteva accadere, e ricordo che alcune volte mia sorella giocava con noi e anche piuttosto bene (aveva un bravo maestro del resto). 

Se non era possibile fare le squadre equilibrate, il ragazzo più grande poteva sempre giocare, ma non poteva fare gol, doveva stare in difesa e al massimo poteva fare degli assist.

E’ strano come tutte queste regole mi tornino alla mente in questo momento con una chiarezza sorpendente. Come pure mi sorprende il fatto che attorno al pallone fossimo tutti uguali.

Non c’era il figlio del professore o il figlio dell’imprenditore o il figlio dell’operaio, eravamo tutti valutati e presi in considerazione in base alla bravura mostrata sul campo e riconosciuta da tutti. Inoltre non c’era alcun veto per nessuno, tutti potevano giocare grandi, piccoli, capaci e meno capaci, fratelli, cugini, amici, alti e bassi, gradassi e impacciati, prepotenti e imbranati.

Certo c’erano le rivalità personali, un po’ di invidia per i più forti e non voglio negare che tra di noi non ci fossero i soliti furbetti. Per esempio regolarmente bisognava interrompere il gioco e andare a contare i passi che separavano i pali improvvisati della porta, perché era normale che il portiere, non visto, la accorciasse.

A proposito, quella del portiere era sempre una questione annosa perché nessuno voleva farlo (e giustamente direi visto che bisognava tuffarsi sull’asfalto e che tutti volevamo fare gol). Quindi lo si faceva a turno o, se non si era in tanti, si giocava a porte piccole.

La cosa che ancora mi sorprende se ci ripenso è che giocavamo senza arbitro e che, nonostante questo, raramente le partite finivano in rissa. Quando c’era un fallo le discussioni sì c’erano ma erano limitate e si arrivava sempre a un compromesso. Per esempio: “va bene vi diamo il rigore, ma lo calcia il più piccolo o il più scarso di voi“. Non era un disonore essere considerati scarsi, del resto era una cosa di cui si era consapevoli e comportava solo di essere scelti per ultimi durante la selezione. Al contrario i pochi che amavano fare il portiere erano i primi a essere scelti.

Quando poi iniziammo a giocare in vere squadre di calcio le cose un po’ cambiarono, ma lo spirito rimanne sempre le stesso. Pochi di noi hanno mai rievuto dei soldi per aver giocato a pallone, lo abbiamo fatto sempre perché era una cosa che ci divertiva, che ci piaceva fare e che ci faceva sentire bene.

E’ proprio questo uno dei temi della serie “The English Game”. Quando il calcio iniziò a diventare popolare alcune squadre iniziarono a pagare i più bravi per accaparrarseli e tenerseli stretti. Oggi è normale e giusto che uno sportivo venga pagato, ma all’epoca era quasi un disonore, anzi nel caso del calcio era proprio proibito. Così il protagonista della serie è Fergus Suter, colui che è considerato il primo professionista della storia del calcio, perché il primo a essere pagato per la sua bravura a tirare calci a un pallone e il primo a cambiare tre squadre “per soldi”. Diciamo un mercenario alla Ibrahimovic ante litteram.

In questo il calcio è cambiato molto, ma la passione che unisce chi gioca e gli spettatori mi pare sia sempre la stessa. Vedere le discussioni accese attorno al calcio, il trasporto e l’eccitazione della gente che segue la squadra della propria città e perfino una mega rissa durante una partita, il tutto ambientato quasi 150 anni, fa riflettere su uno sport tanto criticato la cui magia però è rimasta intatta per tanto tempo e che oggi accumuna e appassiona persone di tutto il mondo.

Arrigo Sacchi in una intervista disse: “Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti della vita“, come dargli torto. Per tutti quei ragazzini che giocavano nelle strade di Genzano di Lucania è stato così, come lo è stato per i primi inglesi che più di 150 anni fa inventarono questo sport.

 

 

 

 

Fonti e riferimenti:

 

 

4 anni ago

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